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lunedì 13 gennaio 2014

La bolla del credito cinese

Mark Carney, l’apprezzato banchiere centrale canadese da poco arruolato alla guida della Bank of England, qualche settimana ha avvertito tutti in maniera molto diplomatica: «L’ultima crisi finanziaria nelle nazioni avanzate si può considerare finita. Il rischio maggiore ora viene dal settore bancario parallelo nelle grandi nazioni emergenti». Con meno cautela, Carney avrebbe potuto dire che la finanza cinese è maturata così rapidamente da rischiare già di vivere la sua Lehman Brothers, un evento che manderebbe a gambe all’aria la già debole ripresa globale.

Ma per capire come ci si è arrivati conviene fare un passo indietro.
Stampare un mare di denaro e metterlo in circolo, come stanno facendo le grandi banche centrali in questi anni, è relativamente facile. Basta superare le obiezioni politiche e tecniche di chi non è d’accordo. Molto più difficile è mantenere il controllo del mare monetario generato: è complicato, cioè, riuscire a fare in modo che i soldi stampati arrivino lì dove li si voleva mandare. La Banca centrale europea, per esempio, non sta riuscendo a far sì che la sua politica di bassi tassi di interesse si traduca in credito più facile ed economico per le imprese e le famiglie di tutta l’area dell’euro; questo è uno dei grandi crucci — espliciti — di Mario Draghi. La Federal Reserve americana, altro esempio, fatica dannatamente a generare nuova occupazione attraverso i suoi acquisti mensili di bond del Tesoro e titoli immobiliari. La Banca centrale cinese, ultimo e drammatico esempio, sembra avere perso il controllo della situazione: i soldi freschi immessi nel sistema hanno preso strade lontane dagli occhi del controllore e nessuno sa più fermarli.

Fissare regole più severe sul sistema bancario — ad esempio, come sta facendo l’Europa, obbligando le banche ad aumentare le riserve di denaro che devono mettere da parte per fare credito — è uno dei modi per tenere sotto controllo la moneta in circolazione ed evitare che troppi soldi diretti verso un solo settore, magari l’immobiliare o le azioni “tech”, gonfino pericolose bolle. Ma imbrigliare gli istituti di credito non basta, perché, purtroppo per le banche centrali, i soldi sanno sempre trovare le loro scorciatoie.
La scorciatoia più battuta sono le banche ombra: soggetti diversi che praticano la tradizionale attività bancaria —- cioè raccolgono denaro e lo prestano — senza avere la forma giuridica, e quindi i vincoli regolamentari, delle banche. Fanno parte di questo mondo variegato fondi di investimento più o meno speculativi, società finanziarie di vario genere, trust basati in nazioni esotiche e prodotti finanziari complessi.

Questi anni di politiche monetarie generose delle Banche centrali combinate a regole più rigorose per le banche private hanno creato l’habitat ideale per questi soggetti, che possono finanziarsi a basso costo e trovare migliaia di imprese assetate di credito. Nel suo rapporto del 2013 sulle banche ombra, diffuso a novembre, il Financial Stability Board calcola che durante il 2012 il sistema bancario parallelo sia cresciuto di 5mila miliardi di dollari, per arrivare a gestire 71mila miliardi. Vale il 117% del Prodotto interno lordo del pianeta e quasi un quarto del sistema finanziario globale.

La crescita a livello mondiale è stata dell’8%. In Europa molte nazioni hanno però visto un calo dell’attività bancaria ombra (tra queste la Spagna, il Regno Unito, l’Italia e la Francia) mentre in Germania e negli Stati Uniti c’è stato un aumento attorno al 10%. In Cina l’attività creditizia fuori dalle regole bancarie ha segnato uno spaventoso +42%. Fermare le banche ombra è diventata una delle prime urgenze di Pechino.

La Cina ha reagito alla crisi mondiale spingendo sugli investimenti. Ha investito su progetti di infrastrutture: strade, ferrovie, aeroporti, centrali elettriche, intere città. Tutti cantieri che, nel migliore dei casi, daranno un ritorno economico negli anni a venire. Per finanziare questi progetti le banche dello Stato hanno concesso crediti in abbondanza alle imprese e lo stesso hanno fatto i governi locali. Il debito totale, cioè pubblico e privato, tra il 2008 e il 2013 è passato dal 128 al 216% del Pil. Per i soli governi locali dal 2010 allo scorso anno l’aumento del passivo è stato del 67%: da 10.700 a 17.900 miliardi di renminbi (2.150 miliardi di euro).

Circa un anno e mezzo fa la Banca centrale si è accorta che la bolla del credito stava diventando pericolosa, quindi ha iniziato a chiudere i rubinetti. Imprese e governi locali – che sì hanno investito, ma non sanno quando questi investimenti daranno un profitto – non avevano in cassa i soldi per pagare i loro debiti. Così si sono arrangiati rivolgendosi alle banche ombra. Chiedere prestiti per rimborsare prestiti: un metodo da manuale per avviare una crisi finanziaria. Nelle ultime settimane Pechino si è mossa per arginare il guaio. È emerso nei giorni scorsi il documento numero 107 distribuito a dicembre dal Consiglio di Stato ai legislatori e alle autorità di controllo: impone una severissima stretta al credito che arriva da soggetti non bancari.

Con nuove regole la Cina potrà limitare i danni futuri, ma già quest’anno la Repubblica Popolare vedrà le prime conseguenze degli errori del passato. Bloomberg calcola che nel 2014 le aziende cinesi devono rimborsare prestiti alle banche per 2.600 renminbi (oltre 300 miliardi di euro). È il 20% in più rispetto al 2013 e secondo l’agenzia americana nel 2014 c’è un’alta probabilità di vedere le prime grandi insolvenze dei colossi di Pechino. Il governo centrale potrà intervenire sulle sue banche per costringerle a concedere nuovo credito e quindi evitare i default.

Ma dovrà fare qualcosa anche per evitare insolvenze verso il sistema senza regole delle banche ombra, che attende nei prossimi mesi rimborsi di prestiti stimati in altri 10mila miliardi di renminbi (1.200 miliardi di euro). È una cifra di poco inferiore al Pil della Spagna. La Banca centrale cinese potrebbe essere costretta a usare una bella fetta delle sue enormi riserve valutarie (nei forzieri di Pechino ci sono titoli per un valore, in euro, di circa 2.500 miliardi) ma non sono soldi che si possono sbloccare, e sacrificare, facilmente. L’insidia all’orizzonte è abbastanza grande da mandare in crisi anche il gigante asiatico. E con lui – inevitabilmente – il resto del mondo.

giovedì 2 gennaio 2014

La chiusura del contratto di AgustaWestland in India

AgustaWestland ha definitiva­mente perso la commessa per dodici elicotteri AW101 da ven­dere al governo indiano. Il ministero della Difesa di Nuova Delhi ha an­nunciato ieri che il contratto firmato nel 2010 con la società italo-britanni­ca controllata da Finmeccanica è «ter­minato con effetto immediato» sulla base della violazione del patto di in­tegrità.La decisione non è stata una sorpresa: il contratto degli elicotteri usati per portare in sicurezza alte cariche dello Stato era in bilico da febbraio, 'conge­lato' dopo che la polizia italiana ave­va arrestato con l’accusa di corruzio­ne internazionale Giuseppe Orsi, ex amministratore di AgustaWestland poi diventato presidente e Ad di Finmec­canica, e Bruno Spagnolini, Ad della compagnia aeronautica. Secondo l’ac­cusa, AgustaWestland si è aggiudicata quella commessa da 560 milioni di eu­ro pagando tangenti per 51 milioni. Il processo si sta svolgendo con rito im­mediato al tribunale di Busto Arsizio e coinvolge, oltre a Orsi e Spagnolini, di­versi intermediari che avrebbero ge­stito l’operazione: l’italoamericano Guido Ralph Haschke, lo svizzero Car­lo Gerosa, il francese Christian Michel. Le indagini proseguono anche in In­dia, dove sotto accusa c’è l’ex capo del­l’aviazione militare Shashindra Pal Tagy e altre quattordici persone, tra funzionari militari e governativi, che avrebbero incassato le mazzette.

Scegliendo di terminare l’accordo in­vece di cancellarlo, il governo di Nuo­va Delhi limita le conseguenze della sua decisione. Terrà i tre elicotteri già consegnati e chiederà indietro una parte dei pagamenti già effettuati, che valgono circa il 45% del valore del con­tratto.
Per la società italo-americana le novità non sono però tutte negative. Agu­staWestland aveva chiesto ripetuta­mente alle autorità indiane di potere ri­correre a un arbitrato per trattare una soluzione consensuale della vicenda. Il governo di New Delhi ha rifiutato e an­che ieri ha confermato di ritenere che le violazioni dei patti di integrità non possano essere discusse attraverso un arbitrato. Tuttavia, dato che la società di Finmeccanica ha insistito e a no­vembre è arrivata a nominare come suo arbitro Bellur N. Srikrishna, ex giu­dice della Corte Suprema ed ex presi­dente dell’Alta Corte del Kerala, l’ese­cutivo indiano ha provveduto a nomi­nare come suo arbitro B. P. Jeevan Reddy, anch’egli ex giudice della Cor­te Suprema. La nomina non è una ve­ra e propria accettazione dell’arbitra­to, ma è un passo avanti. Secondo le regole indiane le due parti per prose­guire adesso dovrebbero nominare as­sieme un terzo arbitro neutrale. 

da Avvenire

Pagare solo 1,75 miliardi per comprarsi la Chrysler

Riuscire a farsi dare un miliardo e mezzo di dollari dagli americani della General Motors per non comprare la Fiat – era l’ormai lontano 2005 – è stato il primo degli incredibili risultati di Sergio Marchionne al Lingotto. Conquistare il 100% della Chrysler pagandola in gran parte con i suoi stessi soldi però sembra un affare anche migliore. Negli Stati Uniti questo manager italiano emigrato in Canada a quattordici anni sa strappare contratti davvero stupefacenti.

Quello annunciato ieri dà diritto alla Fiat di salire dal 58,5 al 100% della Chrysler comprando la quota del 41,5% in mano al Veba, il fondo sanitario del sindacato United Auto Workers (Uaw). L’accordo prevede che al sindacato vadano 3,65 miliardi di dollari. Di questi solo 1,75 saranno sborsati direttamente dalla Fiat. Gli altri 1,9 li metterà Chrysler, che li distribuirà come dividendo straordinario ai suoi soci (cioè la società italiana e il fondo sanitario del sindacato). Il Veba si terrà la sua parte, circa 780 milioni, e in più avrà tutta la parte della Fiat, cioè altri 1,12 miliardi. Il fondo sindacale otterrà poi altri 700 milioni di dollari, in quattro rate da saldare in quattro anni, come "contributo" da parte di Chrysler «a integrazione del vigente contratto collettivo» dell’azienda.

L’intesa chiude una trattativa che negli ultimi mesi sembrava a un passo dal fallimento. Fiat e il sindacato erano andati davanti alla corte del Dalaware perché non erano d’accordo su come fissare il prezzo delle azioni di Chrysler che gli italiani avevano diritto di comprare in base agli accordi del 2009. Il Veba aveva già consegnato alla Sec i primi documenti necessari ad avviare le procedure per quotare a Wall Street quel 25% di Chrysler svincolato dagli accordi con la Fiat. Un modo per mettere sotto pressione Marchionne, spingendolo ad adeguare la sua offerta alle richieste del fondo. La distanza era enorme: secondo le indiscrezioni il sindacato chiedeva 4,3 miliardi, l’azienda ne offriva poco più di 2. A chi gli aveva detto che il Uaw contava di incassare tutti i 5 miliardi di dollari fissati come soglia massima dagli accordi iniziali, Marchionne aveva risposto che «allora dovrebbero comprarsi un biglietto della lotteria».

Hanno incassato poco meno senza svenare il Lingotto. Ieri Marchionne ha definito l’intesa, che sarà finalizzata il 20 gennaio, un momento che «finirà nei libri di storia» della Fiat e della Chrysler, diventate assieme «un costruttore di auto globale». John Elkann, presidente della Fiat, è naturalmente entusiasta: «Aspetto questo giorno sin dal primo momento, sin da quando nel 2009 siamo stati scelti per contribuire alla ricostruzione di Chrysler».

Il progetto di integrazione tra Detroit e Torino è stato il centro dell’attività dei manager della Fiat negli ultimi quattro anni. Con un mercato dell’auto italiano ed europeo ridotto ai minimi termini, le vendite della casa americana sono state indispensabili per dare una prospettiva all’azienda degli Agnelli. Senza gli utili arrivati dall’altra sponda dell’oceano Atlantico, oggi la Fiat rischierebbe di essere un altro costruttore automobili europeo soffocato dalla crisi, come la disastrata Peugeot-Citroën che sta chiedendo aiuto ai cinesi. Invece il Lingotto inaugura il 2014 trasformandosi realmente un colosso italo-americano. Quanto sarà "italiano" e quanto "americano" lo si scoprirà nei prossimi mesi. Ma si sa che a Marchionne le cose migliori sono sempre riuscite nei dintorni di Detroit.

da Avvenire

venerdì 20 dicembre 2013

Gli anni di Bernanke alla Federal Reserve

Il vecchio Richard Shelby, storico senato­re dell’Alabama, glielo aveva detto. Lo a­veva avvertito precisamente il 15 no­vembre 2005, quando Ben Shalom Bernanke si era presentato in Senato per ottenere la conferma della nomina alla guida della Fe­deral Reserve avuta qualche mese prima dal presidente George W. Bush. «Spero che non debba avere a che fare con una crisi da ge­stire, ma so che le capiterà» aveva detto Shelby introducendo una domanda sulle ca­pacità della Fed di reagire a una crisi. Ber­nanke aveva risposto di avere fiducia negli strumenti a disposizione della Banca cen­trale americana. «E farò sicuramente del mio meglio – aveva promesso – per essere pre­parato a qualsiasi cosa possa incontrare lun­go la mia strada. Ma credo che siano stati fat­ti progressi nel rafforzare il sistema per resi­stere meglio davanti agli choc».

O Shelby è un gran menagramo o un vero indovino, perché la crisi che aveva pronosti­cato è arrivata ed è stata gigantesca. Ber­nanke si era detto pronto a tutto ed è stato servito. Questo geniale ebreo americano del­la Georgia, nipote di un immigrato polacco e figlio di un farmacista e di una maestra, si è trovato a dovere gestire: il collasso del si­stema finanziario americano e forse mon­diale, una clamorosa caduta del Pil degli Sta­ti Uniti, l’incapacità di rialzarsi dell’econo­mia globale. È entrato in carica nel febbraio del 2006 e un anno dopo sono arrivati i pri­mi scricchiolii dai mutui subprime.Nell’e­state del 2008 la crisi dell’immobiliare ame­ricano era già enorme. Il 15 settembre falli­va Lehman Brothers e la finanza mondiale finiva nel panico. Bernanke spiegherà che la Fed sarebbe anche intervenuta, ma il Teso­ro non poteva salvare Lehman con soldi pub­blici e il Congresso si sarebbe probabilmen­te opposto. Insomma, se lasciare fallire Leh­man Brothers è stata una colpa – e questo è tutt’altro che scontato – comunque è una colpa che Bernanke condivide con molti al­tri.
Più 'sua' è la responsabilità – e anche su questa solo la storia dirà se ha fatto bene o male – di avere tentato di spingere la ripre­sa guidando la Fed con un’audacia mai vista. Bernanke non si è limitato ad azzerare il co­sto del denaro (ha ereditato tassi al 4,5% ha provato a portarli sopra il 5% ma ha finito per ridurli bruscamente fino all’attuale 0-0,25%, fissato a fine 2008) ma ha anche usa­to i soldi potenzialmente illimitati della Fed per gonfiare il Pil degli Stati Uniti. Nel no­vembre del 2008 la Banca centrale ha avvia­to il primo quantitative easing ,un piano per rendere ancora più abbondante la disponi­bilità di denaro non solo usando i tassi ma anche la creazione di moneta. La Fed ha i­niziato a comprare miliardi e miliardi di ti­toli legati ai mutui e obbligazioni del Tesoro. Si è fermata dopo un anno e mezzo di tem­po e 1.300 miliardi di spesa, quando sem­brava che la ripresa fosse abbastanza forte da resistere senza aiuti. Ma non era vero, e Ber­nanke – nel frattempo confermato da Barack Obama – è stata costretto a riprendere lo shopping dopo pochi mesi. Il secondo pia­no diquantitative easing è durato altri sei mesi ed è costato altri 600 miliardi alla Fe­deral Reserve. Anche questa operazione non è stata sufficiente. Nel settembre del 2012 Bernanke ha annunciato che la Fed si sa­rebbe messa a comprare ogni mese titoli le­gati ai mutui per 40 miliardi di dollari e a di­cembre ha alzato il tiro fino a 85 miliardi. Gli acquisti, ha spiegato la Fed, sarebbero andati avanti finché la ripresa non fosse stata so­lida. E per ripresa solida, ha chiarito Ber­nanke, si intende con una disoccupazione al 6,5%. Il tasso oggi è al 7% e il bilancio del­la Fed in sette anni è cresciuto da 800 mi­liardi a 4mila miliardi di dollari. Sugli effet­ti positivi o meno del quantitative easing è aperto il dibattito tra i massimi economi­sti del mondo. Quelli sondati dal Wall Street Journal si sono divisi equamente tra so­stenitori e critici. Dai giornalisti Bernanke sarà ricordato an­che come il governatore che ha 'inventa­to' la conferenza stampa per annunciare le decisioni della Fed. Quella dell’aprile del 2011 è stata la prima nel secolo di storia della banca centrale americana. Quella di ieri è stata l’ultima con Bernanke come protagonista. Se al debutto era stato ava­rissimo di notizie, all’addio ha regalato ai cronisti l’inizio del tapering. Quasi una galanteria, per evitare che toccasse a Ja­net Yellen, che da gennaio lo sostituirà alla guida della Fed, l’onere di dare la prima – indispensabile – frenata.
da Avvenire

martedì 17 dicembre 2013

Le tasse scontate per la rivalutazione della Banca d'Italia

Il controverso decreto legge che riforma la Banca d’Italia, in di­scussione in questi giorni al Sena­to, non precisa quante tasse dovran­no pagare i soci della nostra Banca centrale sui profitti che otterranno. Non è una variabile da poco. La rifor­ma rivaluta le quote della Banca d’I­talia di 50mila volte, portandone il va­lore complessivo da 156mila a 7,5 mi­liardi di euro. In questo modo il de­creto genera dal nulla un profitto e­norme per quelle banche private che hanno ereditato dal loro passato di i­stituti di credito statali il possesso del 95% delle quote della Banca centrale, e che adesso possono venderle o te­nerle per migliorare i loro bilanci. L’as­senza di chiarezza sulla tassazione di questa generosa rivalutazione era sta­ta segnalata anche come un proble­ma nell’audizione in Senato di Igna­zio Visco, governatore della Banca d’I­talia, e Giovanni Sabatini, presidente dell’Associazione bancaria.

Il governo ha provveduto intervenen­do sulla legge di Stabilità. Un emen­damento introdotto dall’esecutivo al comma 91 della finanziaria stabilisce che su quei 7,5 miliardi di rivalutazio­ne i soci della Banca d’Italia paghe­ranno un’aliquota del 12%, sostituti­va dell’Ires, dell’Irap e di eventuali al­tre addizionali. Il versamento sarà in tre rate, senza interessi, di cui la prima nella prossima primavera.

È un trattamento molto favorevole per le banche che hanno quote nella Ban­ca centrale (a partire da Intesa San­paolo,
 UniCredit e Generali, che as­sieme controllano il 71%). Se su quei 7,5 miliardi di profitti avessero dovu­to pagarci l’Ires, l’imposta sui redditi delle imprese, l’aliquota sarebbe sta­ta più che doppia (al 27,5%) in condi­zioni normali e addirittura tripla l’an­no prossimo, considerato che per il 2014 l’Ires su banche e assicurazioni subirà un’addizionale di altri 8,5 pun­ti percentuali. Per l’Erario si parlereb­be di un incasso di oltre due miliardi e mezzo di euro.

Invece, se l’emendamento passerà, lo Stato dovrà accontentarsi di incassa­re 900 milioni di euro. Poco, conside­rato che fino ai giorni scorsi si parla­va di un gettito superiore al miliardo da ottenere attraverso un’imposta compresa tra il 16 e il 20%. Nel primo caso il gettito sarebbe stato di 1,2 mi­liardi, nel secondo di 1,5 miliardi. Di questi tempi 600 milioni di euro in più da ottenere su questo mezzo regalo alle banche sarebbero potuti essere molto utili per le casse pubbliche.

Un altro aiuto alle banche arriverà dal possibile ritiro dell’emendamento sul­la Tobin Tax. La modifica corregge­rebbe la tassa sulle transazioni finan­ziarie, che ha dato risultati molto al di sotto delle aspettative, abbassando l’a­liquota
 (dallo 0,1 allo 0,01%) ma ap­plicando l’imposta a tutte le transa­zioni finanziarie, escluse quelle sui ti­toli di Stato. Il testo ha trovato un ap­poggio trasversale: tutti i capigruppo della Commissione Bilancio della Ca­mera la hanno sostenuta. Ma il gover­no è contrario e il viceministro dell’E­conomia, Stefano Fassina, ha chiesto di ritirarla: «L’obiettivo è condiviso, ma la portata dell’operazione è molto ri­levante, non è un caso se nessuno Sta­to nazionale ha fatto questa opera­zione prima di noi». I sostenitori del­l’emendamento, a partire da Luigi Bobba, del Pd, primo firmatario del testo, potrebbero accettare il ritiro a condizione che a gennaio il governo riapra, in Italia e in Europa, il dibatti­to sulla tassa anti-speculazione.


giovedì 12 dicembre 2013

La riforma della Banca d'Italia. Perché no

La riforma della Banca d’Italia non è uno di quegli argomenti di cui si chiacchiera nei bar. Se proprio devono parlare di politica, gli italiani discutono piuttosto dell’Imu e dei suoi sostituti dai nomi esotici. Ma in questi giorni l’abolizione della tassa sulla casa (almeno nella sua vecchia forma) e la trasformazione della nostra Banca centrale in una public companycondividono lo stesso destino, perché il governo a fine novembre li ha inseriti nel medesimo decreto legge, il numero 133. Un testo che adesso è in discussione in Senato e che, se approvato in via definitiva dal Parlamento, può rendere il nostro Paese un caso unico al mondo: in nessun’altra nazione investitori privati stranieri possono avere una quota di maggioranza della Banca centrale.

Sono pochissime le Banche centrali non interamente di proprietà dello Stato. Soltanto la Federal Reserve americana, istituita un secolo fa, si serve di "banche centrali federate" il cui capitale è sottoscritto da privati. Ma questi privati sono le stesse banche (tutte, senza eccezioni), obbligate a partecipare al capitale se vogliono esercitare il mestiere di istituto di credito. E comunque le banche americane non sono vigilate dalla Fed, ma dal governo, e sono soci simbolici: le azioni non sono trasferibili e somigliano a una sorta di lasciapassare. Invece la Banca d’Italia è scivolata in mani private durante gli anni Novanta, quando le banche statali che ne controllavano il capitale sono state privatizzate.

Così oggi banche e società di assicurazioni italiane controllano il 94,3% delle quote di Bankitalia, gli enti pubblici Inps e Inail hanno il restante 5,7%. Gli azionisti privati della Banca d’Italia naturalmente non possono intervenire in nessun modo sull’attività istituzionale e le scelte di politica monetaria. Ma c’è un motivo se in quasi tutto il mondo la Banca centrale è gestita dallo Stato. Stampando denaro dal nulla in regime di monopolio e impiegandolo in titoli e prestiti alle banche in cambio di un interesse – l’attività di "signoraggio" – ogni istituto centrale incamera degli utili. Per esempio la nostra Banca centrale nel 2012 ha fatto utili per 2,5 miliardi. Soldi che per statuto vengono in parte messi "a riserva", in parte distribuiti allo Stato e in (piccola) parte divisi tra i soci.

Non c’è motivo per cui dei privati debbano guadagnare da un’attività di totale monopolio concesso per legge dallo Stato. Infatti il Parlamento aveva deciso, nel 2005, che i titoli della Banca centrale sarebbero dovuti tornare sotto il controllo pubblico. Soltanto che lo stesso Parlamento non ha mai approvato il regolamento per l’attuazione di questa legge e quindi il ritorno allo Stato della Banca d’Italia non è mai avvenuto.

La riforma decisa dal governo il 27 novembre abolisce la legge del 2005 e trasforma la Banca d’Italia in una società a proprietà diffusa (una public company, appunto) in cui nessuno può avere una quota superiore al 5%. Attualmente sono tre le banche che superano quella soglia: Intesa Sanpaolo, UniCredit e Generali, che assieme posseggono il 71% del capitale. Quindi dovrebbero cedere complessivamente il 56%.

Il decreto stabilisce che gli azionisti possono essere banche, fondazioni bancarie, società di assicurazioni, enti di previdenza e fondi pensione. Le norme europee non ammettono in generale discriminazioni all’interno dell’Unione, quindi il governo ha pensato bene di stabilire che questi soci possono venire da qualunque dei ventotto Paesi della Ue. Se gli acquirenti delle quote da cedere fossero nuovi soci stranieri, allora ci ritroveremmo con una Banca d’Italia non più italiana.

Così ad esempio – come ha notato Massimo Mucchetti, l’ex vicedirettore del "Corriere della Sera" eletto senatore con il Pd – può succedere che «all’assemblea annuale di Via Nazionale il delegato di una banca cipriota quotista, magari legato ai servizi segreti russi, possa venire a concionare». Con questo decreto il governo dà un aiuto alle banche azioniste e fa incassare qualcosa all’Erario. La legge aggiorna il valore del capitale della Banca d’Italia, che era rimasto alle lire del 1936 (300 milioni, cioè circa 156mila euro) e lo porta a 7,5 miliardi.

Una manna per le banche azioniste: la loro partecipazione nella Banca centrale si rivaluta di quasi 50mila volte. Il decreto del governo corteggia le banche stabilendo che se rivaluteranno nei loro bilanci le quote della Banca d’Italia che detengono allora avranno conti migliori da presentare aglistress test a cui la Banca centrale europea le sottoporrà il prossimo anno. Un abbellimento che però deve ancora essere approvato dalla Bce. Il governo, invece, tasserà queste rivalutazioni per incassare circa un miliardo (soldi che potrà usare per fare quadrare il bilancio pubblico del prossimo anno).

Tutti contenti, dunque? Non proprio, e difatti la riforma sta incontrando più di un ostacolo in Parlamento e anche a Francoforte, dove la Bce non ha potuto ancora dare il suo parere sulla nuova legge a causa – pare – delle forti perplessità della "solita" Bundesbank: i tedeschi considerano questa rivalutazione delle quote un ingiusto regalo alle banche italiane e sospettano che si tratti di una manipolazione vietata dai principi contabili internazionali con i quali i bilanci debbono essere redatti. Può darsi che abbiano ragione.

«Con la Banca centrale europea stiamo facendo una figura molto meschina» ammette Fulvio Coltorti, economista e direttore emerito dell’area studi di Mediobanca. Assieme ad Alberto Quadrio Curzio, Coltorti ha proposto, già dallo scorso aprile, una soluzione che permetterebbe di fare della Banca d’Italia una leva per la crescita dell’economia nazionale. Il piano, battezzato "Bankoro", dal punto di vista tecnico è abbastanza complesso. Semplifichiamo. I due economisti propongono che il Tesoro costituisca la Bankoro Spa, una società della Banca d’Italia che compri l’oro custodito da via Nazionale, 79 milioni di once che ai prezzi attuali valgono circa 72 miliardi di euro.

Attraverso questa vendita la Banca d’Italia avrebbe un profitto su cui dovrebbe pagare circa 20 miliardi di tasse. Il Tesoro incasserebbe quei soldi e li userebbe per liquidare gli attuali soci non pubblici della Banca d’Italia, diventandone socio per oltre il 90%. I soldi incassati dalle banche private in questa operazione sarebbero utili "realizzati", e quindi validi a tutti gli effetti per aumentare il loro patrimonio, che reggerebbe meglio gli stress test della Bce senza rischiare accuse di manipolazioni. Data la loro origine, tuttavia, questi utili sarebbero vincolati in un fondo che lo Stato non tasserebbe per un certo numero di anni, a patto che impieghi le sue risorse per finanziare gli investimenti di aziende particolarmente dinamiche, capaci quindi di "spingere" la ripresa della nostra economia.

«La nostra proposta – spiega Coltorti – parte dall’idea che l’oro della Banca d’Italia appartiene agli italiani. Rivalutarlo può servire a creare un fondo per finanziare la crescita di un Paese in forte depressione economica». L’economista è andato a vedere quanto altre Banche centrali europee hanno versato ai loro Stati negli ultimi quattordici anni, cioè da quando esiste l’euro, sotto forma di tasse e utili: 26 miliardi la Banque de France, 55 miliardi la Bundesbank, 4,6 miliardi la Banca d’Italia.

Questo non tanto perché i profitti della Banca d’Italia siano stati distribuiti tra i suoi azionisti (le banche hanno avuto 709 milioni in 14 anni) ma soprattutto perché la nostra Banca centrale mette molti dei suoi utili "a riserva", e così ha accumulato un tesoretto enorme, che oggi contiene, oltre all’oro, più di 38 miliardi di euro in titoli di Stato, azioni, quote di fondi. La soluzione "Bankoro" sarebbe un modo perché quei soldi vadano a spingere una ripresa che non c’è e che i più ottimisti prevedono comunque debolissima.
La riforma in discussione in Parlamento – elaborata da un ministro, Fabrizio Saccomanni, che viene proprio dalla Banca d’Italia – va in una direzione molto diversa. Coltorti critica anche gli aspetti tecnici. Non solo l’idea della public company in cui possono entrare degli stranieri. Ma anche la perizia appare «non proprio condotta a regola d’arte»: è firmata da tre periti scelti dalla stessa Banca centrale – l’ex presidente della Corte costituzionale Franco Gallo, l’ex vicepresidente della Bce ed ex primo ministro greco Lucas Papademos e il rettore della Bocconi, Andrea Sironi – e il governo ha poi scelto di adottare il valore massimo della loro stima (che suggeriva una forchetta da 5 a 7,5 miliardi).

L’economista una sua spiegazione su queste scelte se l’è data: «Così stando le cose, la Banca d’Italia dimostra di volersi smarcare dal controllo pubblico facendo mancare al sistema il suo aiuto nella fase peggiore della crisi. Ma i profitti di una Banca centrale nascono sulle spalle dello Stato e ad esso devono tornare. Altrimenti finiscono ad alimentare una corporazione che punta solo a garantirsi la sopravvivenza in mezzo a famiglie e imprese sempre più impoverite. Diciamo sempre che vogliamo abbatterle, le corporazioni, e invece...».